La compilation, la raccolta, il mix: da sempre il modo migliore per avere di più in un colpo solo. Genericamente è stato il mezzo con cui il marketing, negli ultimi cinquant’anni, ha meglio promulgato il suo materiale.
Che sia una raccolta musicale (di cui protagonista assoluta fu per tutti gli anni ’80 la celeberrima cassetta a nastro, sostituita oggi dalla ben più versatile Playing List) o un’antologia di racconti letterali, da sempre la compilation è il viatico per chi vuole avere una panoramica su un dato genere o su una precisa etichetta/casa editrice.
Il mondo dei videogames, tra gli anni ’80-’90, non ne fu immune: moltissime furono le raccolte assemblate per home computer (le console se la cavavano al massimo con cartucce con doppio gioco oppure con le multi-cart pirata) da questa o quella software house per fornire, a prezzo ridotto, il meglio (presunto) del proprio parco titoli. Va detto che il motivo era solo solo in parte questo in quanto la maggior parte delle volte essa era un modo per liberare interi magazzini di materiale invenduto oppure per lucrare ulteriormente su titoli di richiamo già ampiamente diffusi.
Celebri sono le compilations con nomi altisonanti sparate con la promessa di chissà quante ore di divertimento videoludico all’interno ma delle quali, alla fine, il motivo d’acquisto si rivolgeva solo ad uno o due titoli al massimo…
Esempio su tutti: 100% Dynamite della Ocean, dove la “tritolo” era rappresentato probabilmente dal solo Last Ninja 2 mentre l’innesco non funzionava né con Double Dragon (leggendaria “sòla” per Commodore 64), né con l’orripilante Wec Le Mans.
Su questo oggi strano (ma all’epoca necessari) mezzo di vendita, il tempo sembra passato più che inesorabilmente: il supporto fisico per la vendita di videogiochi sta man mano scomparendo e, così come la musica, sta lasciando il posto alla vendita liquida, (inzeppando i nostri hard disk, invero).
Al massimo, potremmo aggiudicarci qualche offerta su Steam di due o più titoli in formato bundle, senza nulla che li accomuni, tranne forse la software house.
Nel periodo che va invece dal 1985 al 1992 circa, il mezzo fu ampiamente sfruttato e diversificato: c’erano compilations sportive, automobilistiche o molto spesso un pugno di Best Sellers che si rivelavano però soltanto una scusa per dei gran “papponi” indigesti, dove nella stessa scatola convivevano shoot‘em up, beat‘em up, avventure grafiche, puzzle games e platforms. Tra queste, ci sono alcuni prodotti riusciti che fecero bene il loro lavoro promozionale: sto parlando della generosa The In Crowd della Imagine/Ocean, contenente ben otto titoli di cui alcuni veramente importanti ovvero Target Renegade, Combat School, Barbarian, Platoon e il già conclamato Last Ninja.
Vuoi anche ad un lavoro di packaging ben studiato, come ad esempio in Hollywood Collection, sempre Ocean e contenente best sellers come Batman-The Movie e Robocop, che aveva il box curato dal mitico Bob Wakelin (A breve un articolo su questo importante personaggio…)
Tutte le software house dell’epoca si cimentarono con questo format, talvolta con nomi decisamente altisonanti: Zeppelin, Thalamus (con la doppia The Hits 1 e 2), US Gold (da Go Crazy alla più moderna e dal modesto nome di Platinum Collection), Domark e Gremlin (Ten Great Games I e II).
Tra queste, senz’altro all’epoca la Konami’s Arcade Collection (Imagine Software) è stata una delle più rappresentative a cominciare già dal nome: una serie di titoli (di alterna fattura, vedremo perché) che altro non sono che porting di originali arcade della leggendaria software house nipponica, come sottolinea bene il cabinato raffigurato sulla cover del box.
Per un ragazzino dell’epoca (ricordando bene che i prezzi di un gioco per C64/Spectrum/CPC Amstrad variavano dalle 19.900 lire su cassetta alle 29.900 lire su disco, mentre per Amiga/ST si variava dalle 39.900 alle 49.900 lire) portarsi a casa con 39.900 lire al massimo, quattro/cinque giochi in un colpo solo (c’erano pure le compilation da edicola ma quella è un’altra storia…) era un vantaggio economico non da poco, soprattutto se nella scatola erano contenuti conversioni dirette di arcade presenti nei peggiori bar e sale giochi di periferia, quelle con lo chassis unto e col portacenere non pulito da mesi sul lato destro.
Cosa c’era dunque dentro Konami’s Arcade Collection? Un florilegio di nomi noti come Nemesis, Green Beret e Mikie, altri meno conosciuti come Ping Pong, Hypersports e Jackal (rimpiazzato da un altro nome veramente di nicchia come <Iron Horse nella versione C64), fino a titoli famigerati nell’ambito degli obbrobri pixellati, come Jailbreak.
Un clamoroso patchwork di generi, indubbiamente votato alla quantità più che alla qualità, sperando di accontentare un po’ tutti…
La parte del più classico gaming, ovvero quella shoot ‘em up, viene rappresentata da un super classico come Nemesis, storico porting per 8bit del capolavoro Darius. Un titolo veramente maiuscolo, già leggenda nella versione arcade, la cui versione 8bit era anch’essa diventata un piccolo culto a cominciare dalla voce digitalizzata che esclama “Nemesis, the final challenge!” durante il caricamento.
Per molti, di sicuro nella Top Ten dei miglior shoot ‘em up di sempre, per me invece ancora da terminare, considerato che la difficoltà è a livello No Mercy!
Green Beret, ovvero Rush ‘N Attack per la versione Nes, è un ottimo “run‘n’gun” che all’epoca ricevette un buon riscontro: correva il 1986 ed il pubblico videoludico era, quasi e più di quello cinematografico, affamato di giochi bellici dove il singolo eroe/soldato/guerriero, riusciva da solo a sgominare un intero esercito (!). Quindi era l’epoca di First Blood Part II, Commando, Platoon e Gryzor e anche di questo dignitoso sparatutto laterale che, rigiocato oggi, pur coi suoi limiti intrattiene con un gameplay solido, stemperato da una difficoltà che, come confermato dallo Zzap! dell’epoca, era più difficile della versione da bar!
Di Jailbreak resta aperto il quesito di come mai si sia portato un tale sfacelo fino in fondo alla sua pubblicazione: un disastro in ogni suo aspetto: grafico, di giocabilità, collisioni impossibili, concept vuoto. Il classico gioco realizzato forse in una settimana. Forse.
Il bello è che nella schermata di caricamento tengono ad essere citati coders e grafico (Mark Jones, nemmeno l’ultimo dei fessi, visto che nel suo carnet figurano nientemeno che R-Type ed Out Run Europa), in maniera masochistica, aggiungerei.
Illustre assente nell’elenco: il grandissimo David Whittaker.
C’è poi il trio di mediani, ossia giochi senza pretese ma con qualche lode: Ping Pong è una simulazione del tennis da tavolo con visuale dal fondo, con le sole racchettine a comparire su schermo. Ottimo tecnicamente, certamente non è a livello I Play 3D tennis, ma si lascia giocare. Hypersports invece è una risposta più immediata e stilizzata ai ben più celeberrimi Summer e Winter Games.
Mikie resta in poche parole un’ottima conversione del coin-op multi evento che presentava un bischero ragazzino intento a fare monellate ma ostacolato da professori, bidelli e giocatori di football.
La conversione 8bit, come accadde per altri esempi classici, come Bubble Bobble mantiene bene il lato tecnico ma soprattutto lascia inalterato il gameplay originale. Un must che all’epoca non trovai singolarmente ma solo in questa raccolta qualche anno più tardi…
La rivista Zzap! dell’epoca premiò con un 86% di rating la compilation, a dimostrazione dell’effettivo potenziale videoludico e della buona varietà proposta.
Solo pochi mesi e la Imagine fiuta che la formula è piaciuta e quindi rilascia un’altra compilation ispirata ad un altro brand immortale della storia dell’arcade: Taito Coin-Op Hits: questa volta la scelta dei titoli è anche migliore ma punta sul sicuro con nomi di richiamo come Arkanoid I e II, Slapfight e Bubble Bobble, tanto per citarne alcuni.
Con gli anni’90 la musica cambia: avremo altre compilations, alcune inutili come i titoli che le compongono, altre ottime per far conoscere piccoli cult ad un pubblico più vasto; il formato praticamente era mutato in qualcos’altro non appena il software per home computer si andava spostando sui PC, mentre i personal computers interamente in house moriranno praticamente con la fine dell’Amiga, modificando il mercato per sempre evolvendosi in quello che conosciamo oggi.
E quindi, anche il medium della compilation diviene sempre più monotematico. Sebbene per qualche anno si cerchi di continuare a sfruttare la componente della varietà come valore aggiunto, prima con i 16 bit, poi coi primi PC, non rimarrà tuttavia nulla della spettacolarizzazione a tutti i costi dei contenuti, della cura con la quale a volte erano curati l’aspetto grafico ed il packaging, puntando su grafiche standard e su titoli assolutamente omogenei tra di loro, molte volte composti da un titolo ed i suoi seguiti.
La compilation come concetto di “contenitore” sopravvive ancora oggi, anzi, nel formato audio/visivo odierno, tra Spotify e filmati di You Tube, è diventato quantomai necessario e fruttuoso.