LIBRO – GAME AFTER: A CULTURAL STUDY OF VIDEO GAME AFTERLIFE – Raiford Guins

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Cosa succede ad un videogioco quando termina il suo ciclo vitale? Quando la piattaforma sul quale gira esce di produzione oppure quando il suo seguito lo rende ad un tratto obsoleto? Come preservarlo dall’oblio o dalla distruzione e che importanza ha quest’attività di recupero?

Queste sono domande che molti di noi collezionisti si sono posti più volte quando, nel mare magnum di videogames, hanno dovuto operare delle scelte e focalizzarsi su un certo tipo di collezione per ovvia mancanza di fondi, di spazio e di tempo.
Se a porre questa domanda è però un docente universitario, ecco che ha tutto un altro significato.
 

La cover del libro. Notare il cabinato di Millipede…

GAME AFTER non è il solito libro che racconta, con aneddoti o tramite immagini, parte del nostro mondo. Si tratta, invece, di un vero e proprio trattato sociologico e culturale che cerca di mettere dei punti fermi sul medium videogioco e su come tramandarne la memoria ai posteri.
Per capire il perché di questo libro bisogna premettere che negli USA, al contrario di quanto avviene da noi, tra i media considerati meritevoli di studio non ci sono solamente la TV, la radio o il cinema ma anche i videogiochi! E questo studio è una vera e propria scienza, un argomento che viene preso maledettamente sul serio.
Game After non è il primo libro che tratta di quest’argomento ma mai prima d’ora il punto focale di un saggio è stato proprio la conservazione del videogioco.
L’autore prende in considerazione, infatti, diversi aspetti di tale conservazione, da quello più “ufficiale” dei vari musei sparsi per gli Stati Uniti (non dimentichiamo che in alcuni di essi, come lo Smithsonian o il MOMA, sono esposti permanentemente esempi di videogame storici), a quello più amatoriale dei numerosi progetti di recupero, ripristino ed esposizione degli stessi.

Dobbiamo fin dal principio evidenziare un paio di punti fermi nell’analisi fatta dall’autore: in primo luogo la scelta del suo studio si è diretta quasi esclusivamente sul mondo dei coin-op. Un mondo che, in effetti, può ormai essere dichiarato estinto ma che ha permesso a questo medium di prosperare ed evolversi agli inizi della propria vita.
Un’altro punto è rappresentato dalla scelta di prediligere la parte più materialistica del collezionismo videoludico; una delle prime domande che si pone, infatti, è “cos’è Space Invaders?”. Quando diciamo di volerlo salvare e tramandare ai posteri ci riferiamo all’idea originale, al programma che gira sulla motherboard, al cabinato che lo ha ospitato nelle sale giochi o al piccolo mondo fatto di merchandising sviluppatosi intorno ad esso? Sono cerchi concentrici, per ognuno dei quali il desiderio di salvare questo gioco si tramuta in scelte molto differenti.
Chi vuole salvarne l’idea o il programma può accontentarsi di un emulatore, la parte “fisica” del gioco è di scarso interesse.
L’autore, però, è di diverso avviso, e cerca di considerare tutto quando ruotava intorno al gioco, aderendo ad una concezione più materialistica del collezionismo che si evidenzia nel cerchio più largo di quelli sopra specificati.

A questo proposito è interessante la distinzione che viene fatta tra i diversi approcci museali: ci sono strutture che chiudono in una bacheca l’intero cabinato, affinché chi vuole vederlo capisca cos’era ai tempi ma chi ci vuole anche giocare si deve poi affidare poi ad un comodo LCD, a lato della bacheca, con tanto di emulatore.
Addirittura si arriva all’estremo rappresentato dalla BROWN BOX, il prototipo della prima console mai prodotta costruito da RALPH BAER. Questo Gronchi Rosa del mondo dei videogiochi è in un’ala del museo accessibile soltanto a pochi, selezionatissimi studiosi.
L’autore si chiede se ha senso preservare un gioco senza che il pubblico lo possa nemmeno vedere. Del resto, pur con tutte le precauzioni del caso, la Gioconda è esposta al pubblico, i Bronzi di Riace anche.

Un altro importante esempio è Tennis For Two, il gioco creato nel 1958 da William Higinbotham per intrattenere i visitatori del Brookhaven National Laboratory con qualcosa di più simpatico di anonimi e freddi elaboratori analogici. Si tratta del primo gioco del quale abbiamo reperti fotografici che ne confermano l’esistenza (c’è qualche caso precedente citato qua e là, ma si tratta di racconti privi di supporto visivo che li confermi), ma il gioco di per sé non esiste più; al termine della manifestazione, nel 1959, venne smantellato per usare i singoli componenti su altri progetti.
Quindi si discute dell’importanza della ricostruzione di tale gioco fatta decenni dopo, con parti identiche a quelle originali (i progetti sono ancora disponibili), che però porta solamente a copie, non del tutto fedeli al progetto, che era difettoso e fu probabilmente modificato al momento della costruzione, perché il Tennis For Two del progetto non funzionerebbe.
Che importanza ha, quindi, quest’attività di ricostruzione di un originale che non esiste più?

Al lato opposto della sua analisi troviamo invece alcune piccole ditte che si occupano di trovare vecchi coin-op, in qualunque condizione essi siano, per salvarne il salvabile, se non addirittura rimetterli a nuovo. Un lavoro impossibile da fare in un museo, il cui personale non ha certo le competenze che servirebber, ma che rende un servizio encomiabile per ogni appassionato.
E queste ditte, spesso, sono collegate a vere e proprie sale giochi, alle quali il pubblico può accedere e nelle quali può rivivere l’esatta esperienza di sfidare gli alieni di Space Invaders o i fantasmini di Pac-Man.

La cover del gioco

L’analisi “allargata” dell’autore lo spinge poi a porgere il suo sguardo su tutto quello che gravita attorno ai videogiochi storici. L’esempio classico riportato qui è E.T. L’extraterrestre, videogame per Atari 2600 che spesso viene considerato l’emblema della crisi che ha attraversato questo mondo nel 1983 (A questo INDIRIZZO potrete leggere il mio articolo sulla questione.NdRGP)
Come molti di noi sanno, Atari, trovatasi improvvisamente con i magazzini pieni di giochi che i distributori non volevano più vendere, decise di caricarli in alcuni container ed inviarli in pieno deserto, nel territorio messicano della piccola cittadina di Alamogordo, dove vennero seppelliti.
Da allora e per vent’anni si è alimentata la leggenda di queste cartucce sotterrate chissà dove e la gente ha iniziato a fare chilometri per riuscire ad avere notizie su quanto avvenuto.
Al momento dell’effettivo ritrovamento, si è poi creato una sorta di mercatino nel quale si è cominciato a vendere tutto quello che era stato trovato: sì, perché non c’era solo E.T. ma diverse altre cartucce, tutte ormai rovinate dal tempo e dagli eventi atmosferici, eppure terribilmente attraenti per i curiosi che si recavano in loco!
E ci si chiede: quest’operazione di scavo può essere ricondotta al nostro discorso? Possono giochi tutto sommato mediocri o addirittura fallati come E.T. far parte della storia del medium a tale punto da organizzare gite per ritrovarne i resti sepolti? E che valore ha quanto viene disseppellito, neanche fossero reperti etruschi?
Di seguito riportiamo integralmente l’interessante documentario ATARI: GAME OVER nel quale viene mostrato il recupero delle cartucce sepolte:


 

Quanto sopra raccontato (l’autore è stato lui stesso tra i ricercatori del sito di sepoltura dei giochi e si è dilungato molto su questo argomento) non può sicuramente portare ad una risposta definitiva, o comunque l’autore preferisce lasciare al lettore il compito di farsi un proprio punto di vista e seguirlo nella sua opera di preservazione.
Quanto si cerca di dire in Game After è che il videogame è ormai adulto, anzi direi maturo per poter essere oggetto di studi che non sono unicamente la recensione di un titolo uscito per console o PC. Il problema è che in Italia la mentalità da questo punto di vista è molto arretrata e considera il videogioco come passatempo per ragazzini o per adulti mai cresciuti, come del resto in questo modo è sempre stato considerato in Italia il fumetto, al contrario di quanto accade in Giappone, nel quale la striscia per adulti è cosa piuttosto comune e nessuno si scandalizza della sua esistenza.

Per concludere, GAME AFTER non è assolutamente un testo facile, indipendentemente dalla conoscenza dell’inglese del lettore. Il testo è farcito di talmente tante citazioni di altri testi di studio dei media che la lettura di questo libro (e solo di questo) può essere soltanto un trampolino di lancio per entrare nell’argomento in quanto non sufficiente a fornire una rappresentazione completa ed esauriente dello stesso.
Inoltre tradurre GAME AFTER in italiano (magari ad opera del VIGAMUS o di altre strutture in grado di sopportarne i costi di realizzazione) potrebbe essere l’inizio di un percorso che affronti questo nostro mondo, ma anche quello del collezionismo in generale, in maniera un po più adulta ed approfondita. Qualunque sia poi la nostra risposta al quesito “Cos’è Space Invaders?”, essa influirà sul nostro modo di conservare il videogioco ma comunque saranno tutte interpretazioni personali alla necessità di tramandare alle generazioni future anche uno spicchio della nostra giovinezza e di un mondo pionieristico che oggi, con il mercato in mano a superproduzioni da milioni di Euro, non esiste più.

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Autore: Marco Malpezzi

Tanto tempo fa, un padre decise di regalare al figlio una console prodotta da Inno Hit, con cui giocare a varie versioni di Pong. Non contento di quanto aveva fatto, qualche anno dopo rincarò la dose, regalandogli un fiammante Atari VCS 2600. Fu l’inizio della fine. Da allora è nato un amore per i videogames che ancora oggi, a 43 anni, non si è sopito...

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